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Absolute beginners, giovani lavoratori

di Claudia Fratangeli –

 

La settimana scorsa abbiamo festeggiato il compleanno di uno dei miei capi. Ha compiuto 28 anni. Ha fondato la società per la quale lavoro 2 anni e mezzo fa.

Il suo socio, ovvero l’altro mio capo, compirà 24 anni a giugno. Il mio collega ne ha 26 e all’attivo 3 anni di esperienza.

Questo fa di me quella con più anni e meno anzianità – almeno in questo settore.

Se state pensando che sia stata sfortunata, vi sbagliate di grosso. Questa è la norma, qui. Se penso a tutte le volte che mi sono sentita troppo giovane per essere presa seriamente mi viene da ridere. E poi da piangere. E infine da odiare.

Odiare questa gerarchia cristallizzata che ci sembra così naturale, questa società che mitizza la giovinezza, ma solo come vezzo estetico non come forza vitale per il cambiamento. Ma soprattutto odiare me stessa per essermi lasciata, magari involontariamente, condizionare dallo status quo.

Visto che però questo è l’anno in cui diventerò una persona migliore, voglio razionalizzare questo odio analizzando costruttivamente la situazione.

In Italia non ci si riesce a rendere conto dell’impatto positivo che avrebbe sulla nostra economia incentivare i giovani che creano impresa. Si fa tanto un gran parlare di startup, senza che ovviamente nessuno s’informi seriamente. Addirittura ho letto persone che si lamentavano dei fondi, ridicoli, stanziati a tale scopo, sostenendo che queste società sono destinate a fallire e in ogni caso non diventeranno certo il prossimo Facebook. Come dire che mio padre non avrebbe mai dovuto cominciare la sua pratica di commercialista perché non sarebbe diventato mai il prossimo PwC o Susi Store di non aprire i battenti perché non è mica il nuovo Selfridge’s.
Anche se avranno vita breve ed alcune non arriveranno neanche sul mercato, poco importa perché per un periodo avranno creato ricchezza, non solo economica, ma di conoscenza e per i talenti coinvolti sarà stata un’incredibile palestra per prepararsi al prossimo progetto, che avrà più chance di sopravvivenza perché costruito su una solida base di esperienza. Ma questo è un paese che condanna l’insuccesso ad un punto tale da scoraggiare qualsiasi tentativo. E’ difficile inventarsi, figuriamoci reinventarsi.

Il che mi porta al secondo punto. L’educazione italiana, per quanto fornisca un’elevata preparazione teorica, non prevede alcuna competenza pratica, che di fatto sarebbe anche utile nell’orientamento agli studi superiori. Succede così che tra i giovani che scelgono di lavorare subito e quelli che proseguono attivamente un percorso accademico, c’è una sempre crescente area grigia di cosiddetti neet, che non brancolano nel buio di un paese con un tasso di disoccupazione giovanile imbarazzante e che invece potrebbero trovare la loro strada in una delle professioni digitali più richieste. La verità è che siamo ancorati alla contrapposizione di lavori manuali ed intellettuali, da cui deriva che l’unica alta formazione dignitosa sia quella universitaria, ed anche qui con tutte le distinzioni del caso. La formazione professionale alternativa ed innovativa è lasciata in mano ad una serie di inefficaci iniziative del governo e delle amministrazioni locali e regionali.
D’altronde però se non si pongono le basi per la crescita di imprese innovative, non si può creare un mercato del lavoro in grado di assorbire queste nuove figure professionali.
E quindi niente, preferiamo rimanere così. Con un’economia stagnante e tutti il 39,3% dei giovani a spasso.

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