ED Itinerante

La scarpetta della speranza

di Laura Fasciani –

Può sembrare una scarpetta qualsiasi, magari uno scultore di successo potrebbe ignorarne le forme e bocciare l’opera, un osservatore distratto potrebbe passare oltre senza nemmeno notarla…. Ma questa scarpetta è entrata nella mia vita un giorno d’estate a Berlino.

Ero partita da qui la prima settimana d’Agosto (insieme ad un gruppo di care amiche) dunque vi lascio immaginare il caldo che lasciai per poi atterrare nella capitale tedesca dove ad attenderci c’era un clima tutt’altro che estivo. Da subito quel cielo coperto mi aveva leggermente angosciata, ma questo lo ricordai solo dopo perché quando sei in vacanza poco importa.
Per prima cosa,  stilammo un programma in modo da non perdere tempo: Berlino è grande, è bella, è tutta da scoprire… così i primi giorni la visitammo in lungo e in largo, finché un giorno decidemmo di visitare il campo di concentramento di Sachsenhausen, era il quarto campo di concentramento che visitavo poiché ero precedentemente stata ad Auschwitz e Birkenau (a Cracovia), Terezin (a Praga) e San Sabbia (Trieste).
Ogni campo era stata la dimostrazione più spietata e cruda della cattiveria dell’uomo che riesce a sentirsi superiore ad un altro, ogni entrata recitava le stesse impressionanti e contraddittorie parole: “arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) ed ogni guida raccontava la stessa storia che ormai dopo la prima volta non mi coglieva più impreparata ed attonita.

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Ma stavolta furono molteplici i dettagli che notai e che non avevo mai notato precedentemente: il campo di Sachsenhausen si trovava e tutt’ora si trova al centro di una bellissima cittadina, ordinata, pulita, silenziosa (mentre gli altri normalmente sono situati in aperta campagna, lontano da centri abitati)…. la strada che percorremmo per raggiungerlo era contornata da bellissime ville un tempo appartenenti alle SS (abbreviazione del tedesco Schutzstaffel ,«squadre di protezione», erano un’organizzazione paramilitare d’élite del Partito Nazista tedesco) e oggi abitate dalle famiglie delle stesse che senza alcuna vergogna le occupano a due passi dal luogo di innumerevoli omicidi gran parte dei quali avvenuti per mano di qualche loro parente, marito, padre, che nel campo “lavorava”.

Non voglio raccontarvi la storia del dominio nazista che probabilmente in molti conosciamo, non voglio nemmeno ripercorrere tutto quello che nel campo avveniva, voglio tornare alla scarpetta, alla storia che ogni giorno ricordo con piacere, perché quella scarpetta porta con se un messaggio di coraggio, speranza ed amore.

Un bambino poco più che dodicenne che era sfuggito alla selezione più atroce perché ritenuto in grado di supportare un lavoro fisico (i bambini erano facilmente destinati alle camere a gas perché reputati non in grado di produrre forza lavoro), alloggiava, se così si può dire, in una delle tante baracche con alcuni dei tanti uomini che come lui condividevano il lavoro imposto dal regime.
Esattamente come “i grandi” ogni giorno quel bambino si recava in un’industria, probabilmente un colorificio, e lavorava dalle 12 alle 16 ore al giorno senza alcuna sosta, ma ogni giorno poco prima di andar via cercava di impossessarsi di qualche pezzo di argilla e di qualche colore… così una volta tornato nella baracca ogni sera aggiungeva qualcosa alla sua scarpetta, dopo un breve periodo gli altri uomini notarono la sua opera ed essendosi ormai affezionati al ragazzo lo aiutavano a completare la piccola scultura, anche i grandi avevano così trovato un senso alla loro vita che sembrava più non averne uno, quella scarpetta piena di colori, quel bambino pieno di speranza che aveva ancora voglia di giocare era per loro il motivo più bello per cui ogni sera valeva la pena tornare nella fredda baracca.

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Alla fine del racconto restai ancora un po’ a guardarla, notai meglio i fiori colorati che conteneva, come possono nascere delle rose in una scarpa? Mi chiesi, come può nascere speranza quando ti hanno tolto la libertà, l’identità, la casa, la famiglia….

Prima di allontanarsi la guida concluse: “ la maggior parte dei sopravvissuti dopo la liberazione in quel campo furono proprio coloro che raccontarono questa storia”.

Mai più vidi opera d’arte più bella.

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