ED Racconta

Diario di una ragazza e di un suo ricordo

di Elisabetta Calandrini

Stanotte, l’idea di dormire è lontana mille miglia da me. E’ una notte in cui tante cose avrei voluto andassero diversamente. Alcuni ricordi sono in grado di rapirmi tutta, per intero. Mi giro continuamente tra le lenzuola di questo letto. Il piumone è caduto per terra, sento freddo ma non ho voglia di raccoglierlo. Scrivo un messaggio alle mie amiche. Ultimo accesso alle 01.53. Naturalmente whatsapp mi ricorda che stanno già dormendo, beate loro. Non c’è nessun messaggio, nessuna chiamata senza risposta, nessuna mail. C’è solo questo display poco illuminato e la mia foto sullo sfondo in un pomeriggio di primavera.  Alla fine mi decido e cerco il numero di Viola sulla rubrica del telefono. Primo squillo. Secondo squillo. Terzo. Quar…<<Pronto?!>> ha la voce di una che si è appena svegliata da un sonno profondo. << Scusa se ti chiamo a quest’ora. Non riesco a dormire>>. Sento il telefono che sbatte contro le coperte. Tira su col naso. Mi chiede di aspettare un secondo. Si è alzata. Lo capisco dal rumore dei piedi scalzi che sbattono contro il pavimento. <<Mi sono allontanata per non svegliare mia sorella. Che cos’hai? Stai male?>>. Mentre mi parla a voce bassa, quasi impossibile da decifrare, sento che fa correre l’acqua dal rubinetto. Me la immagino in cucina con la maglietta del pigiama che le arriva fin sotto il sedere, le gambe scoperte e i capelli arruffati. Passiamo dieci minuti al telefono a parlare un po’ di tutto, forse la maggior parte delle cose che stiamo dicendo non hanno alcun senso. Alla fine mi chiede:<< Si è fatto sentire?>>. Panico. Dispiacere. Le rispondo di no, che avrei voluto farlo io questa mattina, che è tutto il giorno che ci penso. Le dico che è difficile. Se penso a come sto ultimamente, mi sento uno schifo. E poi mi sembra di ripetere la solita pappardella e capisco che sono le quattro del mattino e sto stressando la mia migliore amica con queste paranoie inutili. Giulio era tornato una notte d’inverno di un giorno qualunque, dopo quattro anni senza vederci né sentirci. L’avevo incontrato dopo un anno dal nostro fatidico addio ad una festa di compleanno di un amico che abbiamo in comune. Ho cercato il suo sguardo tutta la sera, ma per lui, era come se non esistessi. Lo osservavo parlare con altra gente, con altre donne. Mi infastidiva se le guardava negli occhi, se posava anche solo un dito su una di loro. Avrei voluto avvicinarmi, prenderlo per il collo della camicia e dirgli: << Brutto figlio di puttana, mi manchi!>>, eppure, non mi mossi di un centimetro. Restai immobile e tornai a casa con un pacchetto di sigarette vuoto e le mani mangiucchiate dal nervoso. Piansi tutta la notte. Poi, un pomeriggio arrivò una chiamata anonima: << Pronto?! Chi è?! >> silenzio.  <<Si può sapere chi cazzo sei?>>, sentivo solo un leggero respiro provenire dall’altra parte del telefono. Poi, come uno di quei temporali che ti scoppiano sulla testa in un bel pomeriggio d’estate..<<Sono io>>. E il mondo, mi cadde in pieno sul cuore. Ci siamo incontrati quasi tutte le notti, per un anno intero. Su un diario ne ho riportate alcune. Ogni giorno che passavo senza di lui nella speranza che chiamasse, mi sembrava un giorno perso per essere felici. Avevo paura di non rivederlo mai più e così finivo con il congelare nelle parole, le notti che passavamo insieme, come mi aveva insegnato mia nonna quando me ne regalò uno il giorno del mio quindicesimo compleanno. Mi disse che in quelle pagine avrei dovuto appuntare i giorni più belli della mia vita, avrei dovuto descrivere le persone a cui volevo bene e le cose che mi rendevano felice, cosicché quando le avrei rilette mi sarei ricordata di lei. Disse che l’avrei dovuto custodire segretamente perché quando raggiungi la sua età tante cose del passato non le ricordi più. Hai solo vuoti di memoria, il buio nella testa. Vorresti tanto raccontarti, ma non sai bene cosa hai vissuto e finisci col voler dire tanto, ma non dici niente. Le volevo bene. Gliene voglio ancora. E mi manca terribilmente.
Sono salita in macchina e l’ho salutato guardandolo fisso negli occhi. Nessuna risposta. Nessuno sguardo. Solo Vasco dalla Radio replica a squarciagola: ‘Ehi, vuoi da bere?’. Eh, magari, pensai tra me e me, un bicchierino di whisky e passerebbe quest’ansia che mi porto dentro ogni volta che ci vediamo. Ho fissato di nuovo il suo profilo in attesa di un ciao come va? Tutto bene? Sarebbe stato carino anche se mi avesse mandato a fanculo in quel momento. Perlomeno avrebbe detto qualcosa di sensato e avrebbe schiacciato quel silenzio assordante, quel suo dare per scontato ogni cosa, persino me. E’ tutto così imbarazzante, scomodo. Una volta era tutto più naturale e bello. Le donne come me, pensai, ricadono sempre nello stesso errore: quando sentono il bisogno di essere amare terribilmente, vogliono stringersi ad un uomo che quasi sempre è il loro primo ed unico amore. Ebbi la sensazione che tu in quel momento fosse tutto sbagliato. Io, lui, il posto dove stavamo andando, le cose che ci saremmo detti di lì a poco. Ero cosciente del fatto che accettare un suo invito avrebbe significato dipendere da lui ogni notte, sentire la necessità di baciarlo ogni giorno. Mi mancava troppo, perciò sarei stata a qualsiasi condizione pur di passare anche solo un’ora insieme a lui. La sua mancanza l’avvertivo, era un vuoto che rimbombava.  A furia di udire echi avevo smesso di ascoltare quello della mia coscienza, quando cercava di dirmi: ora basta, torna in te, ama altro. Ma, in quei momenti, non c’eravamo altro che noi. Trovarmi di nuovo al suo fianco dopo anni di silenzio mi rendeva nervosa. Avevo paura di sbagliare. Ogni parola, ogni mio piccolo movimento sembrava potesse rovinare tutto. Mi sentivo in difetto. Ero curiosa di sapere cosa aveva da dirmi. Cosa si dicono due persone quando non si amano più? (Non ci amiamo più?). Mi portò in un posto in cui non ero mai stata, passammo lungo una stradina disabitata circondata da uliveti. Non disse niente per tutto il tragitto, evidentemente anche lui era nervoso quanto me. Sentivo freddo e avvicinai le mani davanti la bocchetta dell’aria calda. Mi mordevo continuamente il labbro inferiore, per un secondo lo sentii sanguinare e ci passai la lingua per coprire la ferita. Si voltò, poi i suoi occhi tornarono sulla strada. Ci fermammo davanti un cancello rosso, spense la macchina e accese la luce sopra di noi. Aveva lo sguardo di chi trattiene le lacrime. Forse è per questo che non parlava. Dopo esserci lasciati, io provai a dimenticarlo con altre persone, ferendolo, ferendomi e, questo lo spinse a provare nei miei confronti un fastidio incondizionato. Era legato al nostro passato, alle cose belle che avevamo vissuto e allo stesso tempo mi detestava per come avevo massacrato la gioia più grande che gli era capitata in tutta la sua vita.
Cominciò a girare i pollici uno sull’altro, poi, come chi prende coraggio, si voltò di scatto e guardandomi disse: << Sei sempre bella, lo sai? >>. Mi esplose una gran voglia di ridere e di piangere. <<Ti ho aspettata tanto. Ho creduto che saresti tornata prima o poi. Ho passato notti insonni ad aspettarti, ad aspettare una chiamata. Che fine hai fatto, Sofia? Si coprì gli occhi abbassando il cappello di lana che schiacciava i suoi meravigliosi ricci neri. Quando stavamo insieme mi divertiva passargli le mani nei capelli, era una delle cose che mi piaceva di più. Con la coda dell’occhio lo vidi strofinare entrambe le mani sul viso come chi vuole svegliarsi da un brutto sogno. Mi sembrava di essere seduta vicina ad un estraneo. Non c’era disinvoltura, non c’erano battute e sorrisi che rompevano il ghiaccio. C’era solo tanta serietà e paura di sbagliare, di commettere qualche errore. Eravamo peggio del primo giorno, peggio del nostro primo incontro o dei secondi che avevano preceduto il nostro primo bacio. Mentre rialzò il cappello, mi prese la mano. La strinse. Il mio cuore cominciò a battere fortissimo. Lo sentivo ovunque: nella testa, nella pancia, sotto i piedi. Pensai che se mi avesse baciata,  allora avevamo ancora una speranza per essere felici. Forse non eravamo da buttare. Eravamo ancora buoni come quando ci siamo conosciuti. Le cose giuste non marciscono mai. Adesso si che eravamo perfetti. Sembrava di essere dentro la scena di un film, dove tutto è possibile anche se imprevedibile. Mi accarezzò il viso chiedendomi:<< Cosa ci è successo?>>, avrei voluto rispondergli : ”siamo finiti quando ti ho detto che non avevo più voglia di stare con te, e invece lo dicevo solo per farmi stringere più forte. Volevo vedere come ti rimboccavi le maniche per restarmi accanto, ma tu non l’hai capito. Ti sei voltato piangendo e poi hai ricominciato senza di me. Hai mai pensato che a volte si dicono cose stupide solo per trovare uno stupido modo per attirare una stupida attenzione?”.  Ma non dissi niente, sospirai e basta. Aveva gli occhi gonfi di lacrime e il labbro inferiore gli tremava. Sembrava un bambino a cui avevano tolto il giocattolo più bello. Portò una mano dietro il mio collo, mi accarezzò delicatamente la nuca e, avvicinandosi, mi baciò. Ritrovai un sapore familiare che  avevo cominciato a dimenticare con il passare del tempo. Ci baciammo come si baciano le persone alle stazioni ferroviarie, come si bacia chi si ama da morire e non si vede mai. Ho pensato che ci sono bocche sintonizzate, fatte apposta per essere unite, come le nostre. Posò la mia mano sul suo petto. Aveva il cuore a tremila e appena lo sentii, lo baciai più forte che potevo. Ci misi tutto l’amore del mondo, ci misi le parole che non sono riuscita a dirgli e il tempo che ho speso inutilmente senza di lui. Percepii un brivido lungo la schiena, mi resi conto che le sue mani erano passate dai miei fianchi a sotto il giubbotto con un movimento ondulatorio che andava su e giù lungo la schiena. Mi abbandonai nelle sue braccia, così come quando affondi nell’acqua fresca del mare e una volta temperata ti ci abitui, ci resti. Mi lasciai andare, senza pensarci troppo. Forse eravamo ancora nostri o in qualche fottuto modo tentavamo di esserlo. All’improvviso vidi spuntare un furgoncino bianco a tutta velocità che puntò involontariamente i suoi fari sul nostro viso. Ci allontanammo l’uno dall’altra, come se avessimo fatto qualcosa di proibito, come se baciarsi fosse un reato. Ebbi paura. Non so per cosa, sinceramente. Forse per quello che avrebbe detto, per come sarebbe finita. Avrei voluto che mi baciasse ancora e invece tornò al suo posto. Siamo rientrati a casa pochi minuti fa. Ho annusato il collo del giubbotto fino a restare senza fiato, c’è il suo profumo. Forse non lo laverò per il resto dei miei giorni. La mano con cui scrivo è la stessa che mi ha tenuto prima di baciarmi. Ogni tanto me la passo sul collo, tornando indietro di qualche ora.

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