“Ladro di chimere”, riflessioni a margine sul romanzo d’esordio di Giacomo D’Ambrosio

Di Cora Craus –
“Ladro di Chimere”, il romanzo d’esordio di Giacomo D’Ambrosio, è costruito come un grande puzzle di quelli artistici, infiniti, da collezione. Cosa rappresenterà una volta costruito, cosa racchiuderà l’infinità di quei tasselli?
Il romanzo abbraccia una realtà onirica e felliniana, quella che vive Paolo, il protagonista; solo che la realtà onirica non è data dal sognare o dal dormire ma molto più duramente dall’attraversare il tunnel del disagio mentale, dall’essere pervasi da impulsi ossessivo-compulsivi, dalla depressione a uno stadio grave. “E il suo cervello era diventato una sorta di fabbrica dismessa dove si poteva trovare di tutto”. L’autore chiama il lettore a essere un testimone diretto e partecipe dell’aggrovigliarsi dei mostri nella testa del protagonista.
“Ladro di chimere” è scritto con pennellate di parole dense e leggere e con un vertiginoso bisogno d’amore per compensare il dolore e il sangue delle ferite auto inflitte. È un memoir, un romanzo di formazione, una raccolta di “trascurabili narrazioni episodiche”, una sceneggiatura.
L’autore durante una presentazione ha definito il protagonista del libro il suo Alter Ego, o forse il suo doppio, o forse semplicemente sé stesso con le sue esperienze e le sue feroci delusioni che gli hanno provocato ferite e paure profonde.
Di sicuro il romanzo esplora la solitudine e il disagio dei giovani, acuito dal lockdown della pandemia che ha lasciato ferite profonde in tutti ma che, certamente, ha moltiplicato gli effetti sui più fragili, provocando, in taluni, il perdersi in una malattia della mente, dell’anima. Bella e sintetica la definizione che dà un personaggio del romanzo, una psicologa: “Questa è la malattia… La tua mente, più che i tuoi occhi, trasforma le belle cose in brutte cose.”
Giacomo D’ambrosio avviluppa il lettore con il suo stile spezzettato, saltellante, discontinuo e nel contempo realizza una storia ricca e lineare dove la musica, il cinema e la geopolitica formano un affascinante ordito che ricorda un mito della “beat generation”, la libertà di espressione di Jack Kerouac.
Paolo, il protagonista, è un ragazzo dalla sensibilità acuta, quasi dolorosa, che vive davvero su di sé i dolori delle persone e le ingiustizie del mondo. La sua fragilità è quasi simile a una “fetta biscottata” pronta a sbriciolarsi al primo urto. È anche un ragazzo di fine anni ’90, dalla grande cultura, attratto dallo studio e dal sapere, così come è affascinato dal nostro passato recente. Il suo sogno, che è anche la sua ossessione, è quello di vivere i momenti magici e irripetibili della metà del XXI secolo: l’epoca di Che Guevara, Martin Luther King, delle rivolte giovanili, del “Maggio francese” della musica e del cinema.
Compagna di vita, di coraggio, di fiducia, di amore è la coprotagonista del romanzo: Sara. Compagna di liceo di Paolo, che ha superato il tunnel del disagio mentale e vuole aiutare Paolo a raggiungere lo stesso obiettivo.
Ma Paolo è anche un giovane uomo alla ricerca di una sua solida identità, di certezze affettive, politiche, sociali. È impegnato in un’affannosa ricerca di sé stesso, del proprio posto nel mondo, quello che spetta di diritto a ogni essere umano: primo attore su quel palcoscenico chiamato vita.
Il suo inesauribile dialogo interiore si srotola tra sé stesso e le sue paure, con timide escursioni nella speranza del futuro. È un vero “flusso di coscienza”, che a noi piace definire una sorta di telecronaca dal mondo interiore, dove il dolore e il respiro del mondo sono imponenti convitati di pietra.
L’ansia costante del protagonista con le sue ossessioni per le superstizioni, per la fortuna o la sfortuna, come quella rappresentata dai numeri pari o dispari, è la cifra stilistica di tutto il libro che, grazie alla particolare narrazione, quasi sarcastica, diventa leggerezza: l’autore rischiara le pagine con una citazione o ricordando un autore, un personaggio, un film, un evento storico. Un insieme che abilmente diventa un tutt’uno con la storia.
In “Ladro di chimere” (Ed, Ensemble – pag. 356 – € 20) l’autore ha scelto una narrazione in terza persona, che permette al protagonista, di esprimere e condividere con il lettore “una geografia immaginaria, dove non esistevano confini letterari e mentali”. Affermazione quanto mai pertinente e veritiera perché le pagine del romanzo sono un lungo viaggio in luoghi e città tra i più belli e significativi del mondo, “illuminate” dal protagonista nelle vesti di un dotto Cicerone che spazia tra letteratura, filosofia, storia cinematografica, attualità e politica.
Quando il racconto sembra snodarsi sul piano della normalità, l’autore prepara il colpo di scena: il protagonista viaggia davvero o è immobile con i suoi fantasmi e i suoi mostri nel chiuso della propria soffocante stanza o rassicurante cucina? Ma soprattutto… riacciufferà le sue chimere a dispetto di tutti e di tutto?
Noi rimaniamo in attesa del sequel.